DIRIGERE IL CAMBIAMENTO
IL COACHING NELLE PMI CHE AFFRONTANO IL CAMBIAMENTO
Se proviamo ad ascoltare i pensieri e le sensazioni che si attivano pronunciando la frase … dirigere il cambiamento … direi che troviamo pensieri quali controllo della situazione, andare verso qualcosa che desideriamo, scegliere una direzione anziché un’altra. Le sensazioni che prevalgono sono di forza, energia, entusiasmo, protagonismo e responsabilità.
Altre espressioni come …subire i cambiamenti del mercato…, ….condizioni di incertezza… e persino l’espressione … gestire il cambiamento … generano pensieri ambigui del tipo … spero di farcela, mi aspettano tempi duri, … e anche le sensazioni provate sono ambigue dove l’ansia che prevale sulla determinazione, paura prevale sul desiderio. In soldoni la sensazioni che prevalgono sono quelle di dovere, necessità, non ho altre soluzioni.
Questo accade perché non tutti i cambiamenti sono voluti, cercati e rientrano nelle proprie aspettative. In queste circostanze imprenditore, manager e azienda necessitano di un percorso di coaching per la gestione del percorso di change management.
Obiettivo del coaching, come strumento di sviluppo individuale per imprenditori e manager è è quello di supportarli nella implementazione e mantenimento nel tempo di comportamenti funzionali al cambiamento richiesto. In alcuni casi attraverso le riflessioni elaborate nelle sessioni di coaching è lo stesso imprenditore o i manager che tracciano le linee del cambiamento che la loro azienda deve seguire per riadattarsi al mondo circostante.
Quindi cosa produce il lavoro di coaching sull’imprenditore e sui manager?
- Una nuova capacità di riallineare la propria identità personale e professionale con quella richiesta dal nuovo contesto aziendale interno ed esterno all’azienda.
- Valorizzare nuove modalità di comunicazione interpersonali e di gruppo.
- Potenziare il proprio stile di leadership necessario per ispirare i collaboratori aziendali e condurli verso il cambiamento.
- Potenziare la capacità di delega e di coinvolgimento verso i livelli gerarchici più operativi per aumentare l’area di autonomia decisionale dei collaboratori e quindi diffondere una maggiore responsabilizzazione.
- Superare l’incoerenza agita proprio dall’imprenditore e dai suoi manager nella gestione quotidiana dei collaboratori: da una parte i collaboratori sono gestiti attraverso modi di fare che risentono della cultura gerarchico funzionale, ma si nutrono verso gli stessi aspettative di maggiore responsabilità e autonomia.
- Promuovere modalità di lavoro in team per la creazione e condivisione di metodi comuni per la presa di decisione, per la risoluzione dei problemi.
- Rispolverare i valori personali, ritrovare sprazzi della propria spiritualità sopita e spesso dimenticata a causa della contingenza.
La riflessione che mi viene rivolta è se non sia più veloce e rapido per un imprenditore circondarsi di nuovi manager e collaboratori già preparati per rispondere ai punti su elencati?
La mia risposta è no, non è sufficiente!
Ci sono tanti casi aziendali di PMI alla seconda, terza generazione, tra cui alcune storie direttamente osservate, che tentano di affrontare il cambiamento inserendo nuovi manager e collaboratori inseriti in organico proprio per diventare loro il centro del cambiamento.
Le aziende a cui facciamo riferimento sono cresciute con una forte cultura padronale in cui i processi decisionali sono fortemente accentrati; in questi contesti si dà poco valore alle competenze manageriali diffuse perché prevale la cultura dell’operatività e del fare.
In questa cultura quando le cose non vanno bene si tagliano i costi di tutti i tipi, anche quelli che in realtà sono investimenti per l’azienda. In queste culture quando le cose non vanno bene da qualche parte si cerca l’incapace. In queste culture “riflettere sul modo di fare le cose e sui modi di pensare” è sprecare tempo, quello che conta è agire.
Ricordiamo, anche, che questa cultura intanto ha permesso all’azienda di traghettarsi per una o due generazioni. In fondo questa cultura ha già prodotto dei risultati, tutto ciò che si vuole cambiare ancora no (nella propria azienda).
Ora consideriamo pure che il mercato suggerisca la necessità di creare professionalità più strategiche e meno orientate al fare. Si delinea per l’azienda il bisogno di sviluppare sia ruoli organizzativi già presenti sia di creare nuovi ruoli caratterizzati da più ampie visioni.
Alcuni manager escono dall’azienda, in quanto non ritenuti in linea con i nuovi indirizzi. Nuovi manager entrano in azienda e cominciano “ad opporsi in modo evidente” al vecchio ma consolidato modus operandi trovando così, sul proprio percorso, ostacoli messi sia dalla proprietà sia dal vecchio management che, forte di una cultura padronale, fatica a seguire il ritmo del cambiamento.
Nell’arco di un anno i “nuovi manager” perdono la fiducia in se stessi, spesso è la proprietà che mette in discussione il loro operato e partono critiche di vario genere, la cultura dell’operatività prevale a volte, sotto forma di consulenti, rientrano in azienda anche i vecchi manager. Gli stessi imprenditori stessi tacciano questi nuovi manager (inseriti come Direttori Generali, Amministratori Delegati, Dirigenti) di incompetenza a tal al punto da renderli responsabili dello stato di salute economico-finanziario per l’azienda. Certamente in una visione di breve periodo questo è riscontrabile, ma se osserviamo gli indicatori del benessere aziendale di lungo periodo quali il clima organizzativo interno negativo, la presenza di problemi annosi che si ripetono, scadenze di grandi progetti non rispettate, una customer satisfaction index che non va oltre 80% (se viene misurata) o che presenta insoddisfazioni importanti tra i clienti, turn over elevato tra le competenze specialistiche, difficoltà a fare recruting su competenze specialistiche (perché l’azienda potrebbe non godere di una buona reputazione come luogo di lavoro) possiamo dire che la cultura di stampo gerarchico funzionale è fallimentare.
Cosa è accaduto quindi?
I nuovi manager pur avendo le giuste competenze e le corrette visioni, chiedevano tempi troppo rapidi per permettere agli altri di seguire la nuova impostazione e affermarsi loro stessi come veri leader capaci di avere dei followers, assurgendo quindi loro stessi a “motore del cambiamento”.
In realtà i tempi del cambiamento devono essere rapidi altrimenti si esce dal mercato, ma per dirigere il cambiamento in azienda occorre fare leva direttamente sull’imprenditore e sui manager che restano (a volte figli dello stesso imprenditore) e dare loro la possibilità di valorizzare tutto ciò che del loro stile comportamentale e di gestione funziona e tutto ciò che invece blocca i loro stessi obiettivi.
Abbandonare consuetudini comportamentali, visioni di se stessi e del mondo che qualcuno definisce desuete e non più funzionali richiama a nostra insaputa pensieri e sentimenti che si provano quando si perde qualcosa di caro, a cui si tiene molto. Per passare da una condizione attuale ad una nuova prima di tutto occorre rendersi di conto di quello che sta accadendo e superare la fase della negazione, dove la resistenza al cambiamento è massima perché non si vede proprio il bisogno. Successivamente si fa di tutto per ripristinare lo stato esistente attivando forme di resistenza al cambiamento e in fondo questo è un passo avanti perché almeno i protagonisti del cambiamento si rendono conto che qualcosa non è più come prima. Il punto di svolta è dato dalla rassegnazione, uno stato in cui si smette di lottare contro il cambiamento e si utilizzano le proprie energie per accettare la realtà per quella che è non più che quella che io voglio che essa sia. L’ultima fase è un nuovo modo di vedere la realtà e la scoperta di nuovi modi di comportarsi più funzionali allo sviluppo e alla crescita. Si chiama integrazione.
Queste fasi sono tutte accompagnate di emozioni predominanti come la rabbia e paura nelle prime fasi, tristezza nella fase di rassegnazione , gioia ed entusiasmo nelle fasi che vanno da accettazione in poi.
Il caoching aiuta imprenditori e manager a traghettarsi nel mondo delle emozioni dove spesso non sono così competenti!
Kurt Lewin afferma che l’organizzazione può essere considerata come un insieme di forze favorevoli e forze contrarie al cambiamento (si parla di driving and restraining forces).
Lewin sostiene che nulla accade all’interno dell’azienda quando l’intensità delle due forze si eguaglia (Tavola 1).
Lewin dice che quando le forze contrarie sono maggiori delle forze favorevoli l’azienda ha difficoltà ad implementare il cambiamento.
Al contrario, se le forze favorevoli sono maggiori di quelle che si oppongono al cambiamento, quest’ultimo potrà essere implementato con maggiore facilità.
Il coaching è un percorso attraverso il quale si individuano a livello prima di tutto personale e poi aziendale le forze favorevoli al cambiamento per potenziarle; allo stesso tempo si tracciano le forze contrarie al cambiamento presenti nell’imprenditore e nei manager e nella organizzazione e si fa un lavoro di rimodulazione di ciò che ancora serve di quelle forze contrarie.
Questo approccio offre l’opportunità di approfondire il tema del cambiamento sentendosi protagonisti del cambiamento, solo così si sviluppano occasioni per dirigere il cambiamento.