Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio,

estrarre nella mia memoria i colori,

distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio. (Sant’Agostino)

Il parlare inutile o dannoso è un ostacolo verso una maggiore consapevolezza di noi stessi.  Un parlare senza consapevolezza, rinforza spesso le nostre condizioni di malessere. Il parlare tra sé e sé come reiterazione di giudizi di inadeguatezza sul nostro e altrui comportamento inonda la nostra anima di malessere. Il parlare vuoto con gli altri, il parlare intorno alle cose, il chiacchierare in modo vuoto inonda la nostra anima di malessere perchè ci aliena dal momento presente.

Gli ostacoli che rendono ardua la strada verso la consapevolezza di ciò che siamo veramente sono tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che ci impediscono di entrare in contatto profondo con noi stessi e, allo stesso tempo, in contatto nutriente con il mondo, con gli altri.

La gestione del confine di contatto è il punto in cui si verifica l’esperienza di relazione con gli altri e con il mondo ed è li che incontriamo l’amato, l’amico, il mondo!

Il parlare inutile parte da una considerazione di P.D. Ouspensky (filosofo Russo di fondamentale importanza nella storia dell ‘900): “Mi resi conto allora che la gente temeva il silenzio più che ogni altra cosa, e che la tendenza a parlare senza posa non era che un riflesso di difesa, basato sul rifiuto di vedere qualche cosa, un rifiuto di confessare qualcosa a sé stessi.”

In questi casi è utile ricordare a noi stessi che se scegliamo  di vivere rendendoci speciali agli occhi degli altri forse non soffriamo immediatamente perchè siamo gratificati da un apparente nutrimento ma poi saremo costretti a pagare il conto della solitudine quando l’altro ci informa che ha altri progetti per se stesso a prescindere da noi!

Entriamo in quella condizione di sofferenza volontaria essenziale alla nostra crescita quando, lavorando su noi stessi, ci troviamo a scegliere di vivere senza tener conto delle aspettative di perfezione che abbiamo  su di noi accettandoci per come siamo, comprese le nostre debolezze, oppure scegliamo di vivere attraversando la paura di perdere l’altro, di essere cacciati, di sentirci in balia di ciò che non conosciamo pur di tutelare l’amor proprio.

Questo non deve far pensare al lavoro su di sé  come “sofferenza” ma al fatto che anche quando si ride e si scherza occorre farlo per sé e per l’altro in un momento in cui l’incontro con l’altro appartiene a due interiorità che si abbracciano. Ma se il ridere e lo scherzare è solo un tentativo mascherato di ricevere le briciole di attenzione che l’altro può darti meglio un tipo di sofferenza scelto che non quello imposto dalla assenza dell’altro.