La morte e il lutto

Lutto dal greco lùo, lavarsi, purificarsi. Lutto visto come un periodo in cui accade un cambiamento, una liberazione da ciò (da una prigione) che appesantiva e offuscava l’anima rendendola non più nitida.
Da esso il latino lugeo (piangere) sia nella forma luctum che luxi, luminoso: si piange per tornare a brillare come la luce.

L’esperienza della perdita è come una valanga che ci travolge, un’onda più grande di noi che ci sommerge, un mondo che frana sotto i nostri piedi e squarcia il mondo fino ad ora conosciuto. A nulla serve applicare la logica, a nulla servono consigli e false speranze.

luttoÈ un’esperienza così “misteriosa” che possiamo paragonarla tuttavia alla forza con cui è entrato l’amore verso la persona cara nella nostra vita.
Sia un figlio, un genitore, un marito o fidanzato.
Come nel caso dell’innamoramento tutto è sconvolto, ogni equilibrio, ogni credo preesistente si squarcia ma in questo caso il vissuto che non controlliamo, che ci prende e ci sospinge laddove non abbiamo mai pensato di arrivare è di pienezza ed energia.
Nella morte, invece il vissuto verso cui siamo trascinati come da una corrente impazzita è di perdita, di impoverimento, di strazio.

Certo l’amore non è paragonabile alla perdita ma hanno in comune qualcosa che possiamo chiamare “mistero”. La vita è intrisa di mistero, eventi che nel bene e nel male sono esperienze non così spiegabili ma che hanno il potere di farci guardare dentro e toccare abissi profondi della nostra anima dove abitano emozioni forti fuori dal nostro controllo cosciente hanno il compito di farci riemergere “trasfigurati”.
Esseri iniziati al mistero dell’esistenza, dunque di contenere il mistero della vita e della morte.

La consapevolezza emotiva non è riflettere sui sentimenti o descrivere le emozioni chelutto si sono provate, ma implica sentire l’emozione in modo consapevole e senza giudicarsi.
Soltanto quando l’emozione
è sentita, allora il parlarne è espressione della sua consapevolezza attraverso la quale siamo in grado di affrontare, tollerare e accettare emozioni difficili come la tristezza, la colpa, la rabbia, la vergogna.
L’accettazione dell’esperienza emotiva è l’opposto del suo evitamento ed è il primo passo del lavoro sulle emozioni necessario per ritrovare la propria luce.

Perdere la persona amata è perdere l’esperienza del contatto con lui o con lei.  Non c’è. Non risponde, non la trovi.  Cerchi una parola, un abbraccio, ma niente può ripristinare quel senso di riposo che anche nella distanza sapevi sarebbe arrivato prima o poi.
Chi resta deve chiudere un’esperienza di vita vissuta con la persona amata e cominciare un’esperienza di vita senza la persona amata.

L’elaborazione del lutto è sempre un processo di adattamento creativo attraverso il quale quel vuoto da asfittico, senza vita, quella mancanza buia e odorosa di muffa si trasforma, con il tempo e attraverso l’energia del dolore in vuoto creativo da cui sorge una nuova dimensione del Sé e un nuovo modo di relazionarsi alla nuova realtà, a se stessi e alla vita.

Quando la persona amata muore si genera sempre un conflitto tra una parte di sé che sa dell’ineluttabilità della perdita ed un’altra parte che continua a difendersi dalla perdita, a proteggersi dal dolore perché eccessivo e va affrontato man mano che ci si sente pronti.

Ecco perché ci si protegge dal dolore negandolo, svalutandolo, addossandosi colpe e mancanze, fino ad arrabbiandosi con il mondo e con se stessi, con chi non ha guarito, con chi ha causato la morte, persino con chi ci ha lasciato potremmo arrabbiarci, con questo Dio ingiusto.
Sono interruzioni del contatto con quella la parte di sé che soffre perché il dolore è eccessivo. Sono meccanismi di difesa che appartengono al bagaglio dei programmi affettivi di cui siamo dotati perché il dolore emotivo è in effetti un dolore che può uccidere. È morto di crepacuore.

Neghiamo la perdita restando accanto alla persona amata, lì con lei. Non sentiamo più la vita, ogni cosa si ingrigisce, l’energia vitale si spegne ed è come se anche noi fossimo lì nella tomba senza vita.
All’inizio questo vissuto è in figura, cioè ci diamo il permesso di viverlo, poi la parte di noi stessi che ci spinge a vivere per chi resta, a lavorare ad agire prende il sopravvento e questo senso di vuoto lo percepiamo come energia che manca, tristezza che colora le nostre giornate.
Possono passare anni nel mondo fisico, ma il nostro mondo emotivo è ancora lì, confluente con chi ora non c’è. Pervasi dalla tristezza.

Il sentimento non sparisce con la morte. E’ il corpo che cerca l’altro, vuole tornare a respirare la vita accanto all’altro, per cui la morte della persona cara spezza un modo di interagire, e diventa un peregrinare alla ricerca dell’altro.

In alcuni casi un modo per proteggersi dal dolore della mancanza ed è quello di sentirsi in colpa per non essere stati vicini tanto quanto, attenti come sarebbe stato necessario, per non aver detto le cose che avremmo voluto dire, per aver perso tempo a litigare e rimbrottare come se la morte non fosse una realtà, per aver in passato tradito la sua fiducia, per non aver fatto pace prima della sua morte e chissà cos’altro. Una relazione con chi non c’è più che si blocca nella colpa. Avrei dovuto, avrei potuto e non l’ho fatto.

Nonostante tutto cresce l’energia vitale dentro di noi, l’anelito alla vita spinge da sè. Ecco che prorompe la rabbia, contro chi riteniamo responsabile che siano i medici, chi ha provocato l’incidente, il fato, contro Dio che è rimasto a guardare. La rabbia persino a volte contro la persona cara stessa, perché non ha prestato attenzione, non si è curata, ci ha lasciati nei guai. La rabbia è quella energia che mi spinge a viver, ci permette di respirare dopo l’apnea della tristezza o della colpa.
Con la rabbia conquistiamo quote di potenza, ci riprendiamo di tutte le parti di noi stessi che erano rimaste sopite.
Ecco che ci viene voglia di finire i progetti lasciati in sospeso dalla persona cara, ci viene voglia di piantare un albero in suo ricordo, di parlare di lui o di lei al mondo raccontando la sua storia di modo che altri possano trarne beneficio.

Eppure tutto resta vano. La mancanza è li e niente potrà bloccare quel dolore che è troppo forte. Ecco che si crolla nell’evidente ineluttabilità della perdita e l’ultimo baluardo è quello di svalutarsi. “So che è stupido piangere”, “so che non serve a nulla”, “so che è infantile”. Quel so che è stupido, infantile è un modo per proteggersi dalla dolorosa realtà della mancanza definendo se stessi stupidi o ingenui o infantili così da non liberare il flusso inesorabile di quel dolore che fa paura.

Alla fine si cade come stremati, ogni baluardo è caduto. Ecco che quel dolore si presenta, ineluttabile, inspiegabile e porta con sé il segreto del mistero.
Il mistero della morte. Mistero dal greco mystérion, iniziato a qualcosa che la logica così come la conosciamo non può contemplare. L’incontro con la morte è un processo di iniziazione ad una nuova dimensione in cui rivediamo le nostre priorità, ciò che prima era importante per la nostra identità lavoro, soldi, potere, prestigio ora si relativizza, si è disposti a perdere ciò che è caduco.
Guardiamo la vita dall’alto e ne scopriamo la bellezza millenaria. Siamo iniziati alla vita perché quegli idoli nulla possono contro la morte, mentre solo l’Amore vince la morte nel senso che l’amore per chi abbiamo amato ci ha sospinto in questo viaggio interiore e ci permette ora di rinascere “liberi” di amare ogni filo d’erba, ogni sguardo, ogni profumo, ogni goccia di pioggia.

elaborazione lutto

Ecco che si compie il contatto pieno con la mancanza dell’altro che ora è pienezza. Si ritrova l’altro così come è ora, assente.
Non così come era, ma come è adesso. È un paradosso, ma c’è uno strano senso di pienezza nell’aver accettato il dolore della mancanza. Quella mancanza che oggi ci fa essere ciò che siamo, che ci fa sentire “iniziati” a qualcosa che va oltre ciò che è apparenza, visibile.
La pienezza che nasce quando ci riappropriamo della nostra natura e quel bisogno di sicurezza, quel bisogno di essere apprezzati o considerati o quel bisogno di essere riconosciuti autorevoli dagli altri non ci imprigiona più.

Siamo iniziati alla vita per quella che è, perché abbiamo imparato a sentire il respiro dell’esistenza pura quella che ci rende parti di un disegno più grande, parte di un progetto universale. Ne usciamo “guariti” dalla nostra cecità, dai nostri automatismi e dalle nostre paura con cui ci siamo fatti scivolare la vita.

In questo viaggio notturno, in questo viaggio dentro se stessi occorre avere pazienza, saper ascoltare tutte le parti di sé e accompagnarsi con ferma gentilezza. E’ un viaggio solitario, ma le persone che sono a fianco, nonostante vissute come distanti e fastidiose possono diventare risorse preziose in quanto possono dare voce alle parti di noi che facciamo fatica ad ascoltare da dentro.

 

 

 

Psicoterapia del Benessere

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