“Tutti i beni mi sono stati dati dal momento in cui non li ho più cercati” (San Giovanni della Croce)
Da più di un anno, da quando combattiamo con la pandemia da coronavirus, il nostro livello di paura (ansia) è molto oltre il livello a cui eravamo abituati nella nostra società.
Paura dal greco “pavor”, sbattuti per terra, schiacciati al suolo. La paura scatta a causa di un’assenza, un rifiuto, una perdita, una malattia, un non sapere con certezza cosa accadrà. Qualunque sia il nome che diamo alla nostra paura, alla fine, essa ha un’unica radice, la “paura di morire” o “paura di soffrire al punto da morirne“.
E’ a questo punto che la paura diventa ansia e l’ansia diventa panico. Oltre la sua soglia di funzionalità la paura invade il nostro pensiero, lo rende ossessivo, ripetitivo, ruminante. Il pensiero è incapace di staccarsi da ciò che ha scatenato la nostra paura, il corpo si annichilisce e siamo come “prigionieri” della nostra mente, in realtà siamo prigionieri della paura che controlla la mente. La paura di morire si presenta sotto molte vesti durante il cammino della vita e, qualunque sia il suo nome, è irragionevole, toglie pace e ti fa dubitare della bellezza che c’è dentro di noi e nelle persone intorno a noi.
Come affrontare la paura? Praticando la virtù del coraggio!
Il coraggio dal latino cor habeo (cŏr, cŏrdis ’cuore’ e verbo habere ’avere’). Avere cuore è la virtù umana, indicata anche come fortezza. Virtù dal greco ἀρετή aretè, forza d’animo: capacità di agire la nostra forza.
Per Aristotele, coraggio e paura sono sempre stati pensati assieme. Praticare la virtù del coraggio è possibile solo se si riconoscono le paure e si accettano. Non è coraggioso chi afferma di non aver mai paura. Egli è solo incauto perchè non si rende conto delle minacce e rischia di mettere in pericolo se stesso e gli altri. Coraggioso è colui che consapevole della paura, sceglie di affrontare quella esperienza nonostante tutto. Sceglie di vivere accompagnato dalla paura, la paura di perdere qualcosa o qualcuno, di essere rifiutato, o di affrontare un futuro incerto, la paura di ammalarsi. Praticare quindi il coraggio significa agire con volontà, scegliere di stare in compagnia della nostra paura e allo stesso tempo di andare avanti.
La conoscenza di sé passa attraverso la conoscenza delle proprie paure. Scopri che paure hai e scoprirai chi sei”. (Vito Mancuso, 2020. Il coraggio e la paura, Garzanti editore). Scoprire le proprie paure ci permette di capire quali sono le nostre fragilità al fine di distinguerle e integrarle nell’immagine che contempliamo di noi stessi.
Il coraggio è l’esercizio di una virtù: espressione della nostra forza di volontà in cui emozioni, pensieri e corpo sono in sintonia fra di loro e si orientano verso il futuro.
Il primo passo è esprimere la volontà di agire il coraggio, rendere chiara a noi per primi l’intenzione di agire in una certa direzione. Proprio ciò che ci fa paura diventa la scelta del nostro coraggio. Coraggio di dire quella certa cosa sapendo che possiamo ricevere un rifiuto; coraggio di andare avanti nonostante l’assenza di quel riconoscimento; il coraggio di chiedere qualcosa di cui abbiamo bisogno; il coraggio di lasciare andare le cose che sono accadute; il coraggio di lasciare fluire gli eventi futuri sapendo che su alcuni di essi non possiamo agire nessun controllo; il coraggio di fidarci del nostro corpo e della sua capacità di guarigione; il coraggio di fidarci delle nostre competenze; il coraggio di fidarci di noi stessi; il coraggio di camminare con la vergogna del sentirsi inadeguati quando il mondo ti umilia; il coraggio di riparare alla sofferenza che abbiamo generato nell’altro prendendoci la responsabilità delle nostre azioni; il coraggio di dire di no sapendo che rischiamo di deludere l’altro; il coraggio di fare ciò che vogliamo sapendo che rischiamo la critica negativa. Tanto altro!
Secondo passo è imparare a guardando la paura davvero e senza giudizio riusciremo a liberarci dalla sua prigione e a toccare la serenità. “La paura ci fa restare attaccati al passato o ci fa preoccupare per il futuro. Se riusciamo a riconoscerla possiamo renderci conto che in questo preciso momento siamo ancora vivi e il nostro corpo funziona perfettamente. I nostri occhi possono vedere la bellezza del cielo. Le nostre orecchie possono ancora sentire le voci delle persone che amiamo, possiamo sentire i rumori della natura” (Thich Nhat Hanh, 2015 Paura. Supera la tempesta con la saggezza, edizioni Macro)
Osservando la nostra paura senza giudizio, riusciremo a vedere che la radice di quella paura è paura di “morire” o di soffrire fino a “morirne”. Il principio di Hebb, dal neuropsicologo Donald Olding Hebb, afferma che se la nostra rete neurale ha registrato, in un preciso circuito neurale, quella paura che, forse da piccoli, aveva il sapore della morte, quello stesso circuito che si attiva tutte le volte che un evento simile, anche se di minore portata, accade nella nostra vita. Per un neonato non ricevere cure di base fisiche o emotive, o ricevere violenza fisica o relazionale significa semplicemente rischiare di morire per davvero.
Dalla paura al coraggio: il distacco emotivo e mentale
Per agire la virtù del coraggio, il terzo passo è credere alla saggezza che abita la nostra interiorità: capacità di coltivare i nostri desideri, ma senza attaccamento o bramosia. L’attaccamento al mondo esterno o alle nostre vecchie abitudini ci rende paurosi, come se senza quel tipo di risultato, o successo personale non ci fosse via di scampo. L’attaccamento ad una relazione, ad un oggetto, ad una situazione o semplicemente ad una nostra abitudine (come quella di controllare o scrutare tutto) alimenta la paura di non avere ciò di cui abbiamo bisogno o di perdere ciò che abbiamo già. L’attaccamento o la bramosia non accetta l’incertezza del risultato che, invece, è possibile, reale. Non sappiamo come andranno le cose, possiamo solo desiderare e creare le condizioni perché quello che desideriamo si realizzi, ma l’incertezza resta l’unica cosa certa. Riconoscere l’attaccamento alle cose, non significa rinunciare ai propri sogni; non si rinuncia al desiderio, non si smette di orientare la nostra intenzione verso quel desiderio, ma si smette di volere a tutti i costi quel preciso risultato. Ci attacchiamo al mondo esterno quando dentro di noi sentiamo un senso di frammentazione e disintegrazione del nostro Sé interiore, come un “rompersi in mille pezzi” al solo pensiero che quel risultato non dovesse realizzarsi. Figuriamoci quando non si realizza davvero. Il sentimento di disintegrazione e di frammentazione del Sé possiamo percepirlo grazie alla forte angoscia o dolore emotivo che ne deriva, il senso di disorientamento, confusione e la mancanza di stabilità psicologica. Ecco perché perdere quella relazione, ricevere un rifiuto, la perdita di quell’oggetto, il mancato riconoscimento, non poter controllare il futuro hanno il sapore della “morte psicologica”. Il distacco emotivo e mentale è possibile quindi quando coltiviamo i nostri desideri di realizzazione, di amore o di indipendenza con fiducia nelle nostre potenzialità, imparando a sentirci protetti, amati e radicati anche al di sà delle nostre certezze, mentre l’attaccamento nasce nella paura della perdita e nell’insicurezza. Il disturbo d’ansia, gli attacchi di panico, il pensiero ossessivo-ripetitivo ci dicono che ci sono forme di “attaccamento” da esplorare e sentimenti di disintegrazione e frammentazione interiori di cui prendersi cura. Praticare la virtù del coraggio significa coltivare l’esperienza del realizzare i nostri desideri, senza rinnegare le crepe che si aprono nella casa della nostra interiorità.